In certe acque del pianeta i rifiuti formano intere isole, mentre frammenti di nylon superano addirittura di sei volte la quantità del plancton marino. E nel Mediterraneo? C’è poco da stare allegri, perché...
Spettacolo consueto sulle spiagge estive: lambito dalla risacca, un sacchetto di plastica ondeggia avanti e indietro sulla riva.
Sfiora le gambe di un bagnante, fa un breve volo e ricomincia il suo dondolio poco più in là.
Una mareggiata lo porterà altrove, dove scene simili si ripeteranno all'infinito, o quasi.
Nessuno lo può testimoniare, visto che ha cominciato a circolare solo all'inizio degli anni Settanta, ma pare che a sparire dalla natura una busta di nylon impieghi più di 400 anni.
A meno che un volenteroso non la tolga dal mare, la metta in un cestino per avviarla a sepoltura in discarica o a un più nobile processo di riciclo.
Non c'è dubbio che la plastica costituisca la maggior parte dei rifiuti solidi che finiscono in mare, il 60-70 per cento del totale nel Mediterraneo o di più secondo alcune stime. Ciò che colpisce è quanto poco si sappia del problema.
Perfino le associazioni ambientaliste non hanno dati sulle quantità di rifiuti che finiscono in acqua e sulle spiagge. Le stime sono imprecise, fatte su piccoli tratti di mare. Ma le rare osservazioni e gli studi specifici lasciano di stucco.
La Algalita research foundation, un'organizzazione californiana, ha segnalato tempo fa un'enorme chiazza di rifiuti di plastica, grande come il Texas (più di due volte l'Italia), che si estende nell'oceano Pacifico tra le isole Hawaii e la costa californiana.
Il volume complessivo di rifiuti, secondo Charles Moore, esperto della fondazione, è sei volte la quantità di plancton che vive nello stesso tratto di mare.
Qui si trovano ancora i resti di un carico di scarpe finito in mare nel 1990. Secondo le analisi di oceanografi della National oceanic and atmospheric administration (Noaa) i rifiuti, per il vortice formato dalle correnti, potrebbero rimanere concentrati lì per oltre 16 anni.
E non è un'eccezione.
«Nello Ionio, a sud della Sicilia, c'è un vortice in cui finiscono intrappolati i rifiuti marini. E i dati da satellite evidenziano vortici simili in altre parti degli oceani» spiega Stefano Aliani, ricercatore dell'Istituto di scienze marine del Cnr alla Spezia.
Nel 1992, durante una tempesta, è scivolato in mare da un mercantile in viaggio dalla Cina agli Usa un container con 30 mila giocattolini di plastica. Anatroccoli e tartarughe hanno fatto il giro del mondo, sono rimasti intrappolati nei ghiacci artici e sono per la maggior parte ancora in circolazione negli oceani. Gli esperti di oceanografia ne seguono gli spostamenti per studiare il giro delle correnti marine.
Trent'anni fa, la plastica era considerata solo brutta da vedere.
Il mare, si pensava, poteva accogliere qualunque spazzatura. «Negli anni Ottanta ci si è resi conto che così non è. Sono entrate in vigore le convenzioni internazionali che regolano lo scarico di rifiuti in mare, come il Marpol (Protocol to the International Convention for the Prevention of Pollution from Ships, Annex V).
Lo scarico al largo si è ridotto solo in parte, la plastica continua ad arrivare dalla terraferma» dice Aliani. E le navi scaricano in mare ogni anno 6,5 milioni di tonnellate di plastica.
Via via che sono cambiati i consumi, è cambiata anche la tipologia di ciò che finisce in mare. Nel 1985, la percentuale di buste di plastica tirate a bordo dai ricercatori dell'Istituto di scienze marine costiere del Cnr a Mazara del Vallo nelle campagne di osservazione era il 34,5 per cento; nel 1994 il 17,3.
In compenso, le bottiglie di plastica sono passate dal 3 al 15 per cento. Durante tre crociere oceanografiche tra Liguria e Corsica, Aliani ha tenuto il conto degli avvistamenti di rifiuti galleggianti, 14 per km quadrato nel '97, 4 nel 2000.
Improbabile che sia diminuita la plastica che finisce in mare. «Più verosimilmente, una mareggiata ha portato i rifiuti sulla spiaggia».
In acqua si trovano reti da pesca, mozziconi di sigaretta, pezzi di corda, bottiglie, buste, cannucce, polistirolo. Anche le isole più remote, da Tonga, nel Pacifico, alle Fiji, sono raggiunte dalla spazzatura.
I rifiuti di plastica arrivano perfino in Antartide. «Quello dei rifiuti in mare non è solo un problema estetico. I detriti possono provocare problemi alla pesca, rompendo le reti.
E certi tipi di rifiuti sono un danno per la biodiversità» dice Francesco Saverio Civili, coordinatore del programma d'azione per il Mediterraneo dell'agenzia ambientale delle Nazioni Unite.
Sono ancora poche le informazioni sull'impatto di questa forma di inquinamento sugli ecosistemi. «I rifiuti di plastica uccidono fino a 1 milione di uccelli marini, 100 mila mammiferi marini e una quantità immensa di pesci ogni anno» affermano le stime dell'associazione Marine conservation society.
Tartarughe, tonni e cetacei confondono i sacchetti con una loro fonte di cibo, le meduse, e ne rimangono soffocati. Oppure i detriti intasano lo stomaco e l'intestino degli animali, che non riescono più a nutrirsi.
Secondo uno studio, almeno 267 specie in tutto il mondo, tra cui l'86 per cento delle tartarughe marine, il 44 per cento degli uccelli e il 43 per cento dei mammiferi marini, sono danneggiate da questi rifiuti. Ma, probabilmente, osservano gli esperti delle associazioni ambientaliste, le stime sono pesantemente per difetto.
Un problema emergente è quello della plastica che non si vede. «Dov'è tutta la plastica?» è il titolo di un articolo pubblicato sulla rivista Science l'anno scorso.
Richard Thompson, ricercatore di ecologia marina dell'Università di Plymouth, ha raccolto sedimenti sulle spiagge e nell'acqua bassa di una ventina di località in Gran Bretagna. Li ha analizzati e ha scoperto che un terzo circa era composto da polimeri sintetici.
La plastica non si limita a deturpare le spiagge: sta diventando «le spiagge».
Anche se non è biodegradabile, l'azione continua del vento e delle onde è in grado di sminuzzare gli oggetti in frammenti sempre più minuscoli. Anche in alto mare, dicono le indagini di Thompson, i frammenti microscopici sono oggi tre volte di più che negli anni Sessanta. «Vermi di mare, conchiglie, molluschi li ingeriscono. Questi organismi sono il cibo dei pesci, che a loro volta sono il nostro cibo.
Non ci sono ancora dati per affermarlo con certezza, ma le sostanze tossiche della plastica ci potrebbero ritornare indietro attraverso la catena alimentare» dice Aliani.
E poi ci sono altre sorprese.
Uno studio appena pubblicato su Marine Biology informa che, a bordo di detriti di plastica grandi e piccoli, varie specie di organismi lasciano i territori natii e si spingono in terre inesplorate: piccolissimi crostacei tipici delle aree tropicali sono arrivati fino alle isole Shetland, probabilmente spostandosi sui rifiuti marini.
(ha collaborato Gianni Lannes)
- Fonte Panorama -
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