lunedì 28 gennaio 2013

IL KAMUT NON E' IL NOME DI UN GRANO MA UN 'INVENZIONE COMMERCIALE








24 gennaio 2013

Ha buone proprietà nutrizionali ed è eccellente per la pastificazione, ma
non è stato “risvegliato” da una tomba egizia e non è adatto ai celiaci.
Inoltre viene coltivato e venduto in regime di monopolio, ha un costo
eccessivo, e una pesante impronta ecologica. Luci ed ombre del Kamut – o
meglio, del Khorasan: un tipo di frumento che tra l’altro abbiamo anche in
Italia

“Kamut” non è il nome di un grano, ma il marchio commerciale (come “Mulino
Bianco” o “McDonald’s”) che la società Kamut International ltd (K.Int.) ha
posto su una varietà di frumento registrata negli Stati Uniti con la sigla
QK-77, coltivata e venduta in regime di monopolio e famoso in tutto il mondo
grazie ad un’operazione di marketing senza precedenti.

C’è chi chiama questa varietà il “grano del faraone” perché si racconta che
i suoi semi sono stati ritrovati intorno alla metà del secolo scorso in una
tomba egizia ed inviati nel Montana, dove dopo migliaia di anni sono stati
“risvegliati” e moltiplicati.

Il frumento prodotto e venduto con il marchio Kamut è coltivato negli Stati
Uniti (Montana) e nel Canada (Alberta e Saskatchewan), sotto lo stretto
controllo della famiglia Quinn, proprietaria della società K.Int.; in Italia
è importato solo da aziende autorizzate e può essere macinato solo da mulini
autorizzati. Tutti i prodotti che portano il marchio sono preparati e
venduti sotto licenza della K.Int e sotto il controllo della Kamut
Enterprises of Europe.

Il marketing decisamente efficace che è alla base del successo del Kamut ha
fatto leva su tre aspetti: la suggestiva leggenda del suo ritrovamento,
l’attribuzione di eccezionali qualità nutrizionali ed una presunta
compatibilità per gli intolleranti al glutine. Parliamone.

Il Frumento orientale o Grano grosso o Khorasan – lo chiamiamo col suo nome
tramandato, comune e “pubblico”, mentre Kamut è un nome di fantasia
registrato – è una specie (Triticum turgidum subsp. turanicum) appartenente
allo stesso gruppo genetico del frumento duro: presenta un culmo (fusto)
alto anche 180 cm; ha la cariosside (chicco) nuda e molto lunga, più di
quella di qualunque altro frumento; è originario della fascia compresa tra
l’Anatolia e l’Altopiano iranico (Khorasan è il nome di una regione
dell’Iran); nel corso dei secoli si è diffuso sulle sponde del Mediterraneo
orientale, dove in aziende di piccola scala è sopravvissuto all’espansione
del frumento duro e tenero.

L’invenzione commerciale del ritrovamento

Dunque, per trovare il Khorasan in Egitto non era (e non è) davvero
necessario scomodare le tombe dei faraoni; senza contare che un tipo di
Khorasan era (e, marginalmente ancora è) coltivato anche tra Lucania, Sannio
e Abruzzo: è la Saragolla, da non confondere con una omonima varietà
migliorata di frumento duro ottenuta da un incrocio e registrata nel 2004
dalla Società Produttori Sementi di Bologna. Inoltre non bisogna dimenticare
che la germinabilità del frumento decade dopo pochi decenni, per quanto
ideali siano le condizioni di conservazione. Tutto questo porta a
riconoscere nella storia del presunto ritrovamento del Khorasan/Kamut solo
una fantasiosa invenzione commerciale, elaborata per stimolare il desiderio
di qualcosa di puro, antico ed esotico. E, a onor del vero, la stessa K.Int.
ha preso le distanze sulla leggenda che, per altro, ormai non ha più bisogno
di essere incoraggiata.

Dai dati oggi disponibili, di fonte pubblica e privata, tra gli elementi di
maggiore caratterizzazione del Khorasan ci sono un elevato contenuto
proteico, in generale superiore alla media dei frumenti duri e teneri, e
buoni valori di beta-carotene e selenio; per le altre componenti qualitative
e nutrizionali non ci sono differenze sostanziali rispetto agli altri
frumenti.

Glutine: non ne è né privo né povero

Bisogna, infatti, chiarire che, come ogni frumento, il Khorasan è inadatto
per l’alimentazione dei celiaci, perché contiene glutine (e non ne è né
privo né povero, come, poco responsabilmente, una certa comunicazione
pubblicitaria afferma o lascia intendere) e ne contiene in misura superiore
a quella dei frumenti teneri ed a numerose varietà di frumento duro.

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Kamut: glutine secco 15,5%, glutine/proteine 94,5%

Frumento duro: glutine secco 12,5%, glutine/proteine 87,5%

Farro dicocco: glutine secco 14%, glutine/proteine 79%

Frumento tenero: glutine secco 13,4%, glutine/proteine 80,6%

Farro spelta: glutine secco 17,1%, glutine/proteine 93%

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Detto ciò, il Khorasan è certamente un frumento rustico, con ampia
dattabilità ambientale, eccellente per la pastificazione. Come ogni frumento
che non è stato sottoposto a procedimenti di miglioramento genetico o ad una
pressione selettiva troppo spinta, e proprio per questo motivo pare sia più
facilmente digeribile dalle persone che soffrono di lievi allergie e
intolleranze, comunque non riconducibili alla celiachia: ma questo è proprio
ciò che si può dire dei farri e delle “antiche” varietà di frumento duro e
tenero. Se la sua coltivazione è biologica (come permette la sua rusticità e
come, per i propri prodotti, assicura il disciplinare del marchio Kamut), si
può dire che senz’altro è un prodotto salutare, senza però scadere in
esagerazioni né in forzature incoraggiate dalla moda e dal marketing del
salutismo.

Costi elevati, per il portafoglio e per il Pianeta

Restano ancora tre aspetti che gettano un’ombra sul prodotto a marchio Kamut
(ma non sul Khorasan!):

il monopolio commerciale imposto dalla K.Int. su un frumento tradizionale
che, come tale, dovrebbe invece essere patrimonio di tutti, e più di
chiunque altro delle comunità che nel tempo lo hanno conservato e
tramandato;
il costo eccessivo del prodotto finito (dall’80 al 200% in più di una pasta
di comune grano duro biologico), poco giustificabile a sostanziale parità di
valori qualitativi e nutrizionali, dovuto al regime di monopolio, ai costi
di trasporto, ai diritti di uso ed ai costi di propaganda, ma dovuto anche
agli effetti di un mercato dell’eccellenza che trasforma il cibo in oggetto
di lusso, di gratificazione e di distinzione, e che specula sul desiderio di
rassicurazione e sul bisogno di salute;
la pesante impronta ecologica legata allo spostamento di un prodotto
perlopiù coltivato dall’altra parte del Mondo che arriva sulle nostre tavole
attraverso una filiera molto lunga (migliaia di chilometri), e che, solo per
questo fatto, non è compatibile con la filosofia della decrescita e con
l’attenzione al consumo locale, fatto se possibile a “chilometro zero”.


Note

Per i dati riferiti in questo articolo sono stati consultati i siti
dell’Associazione Italiana Celiachia (www.celiachia.it), dell’Istituto
Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione (www.inran.it), della
Kamut International (www.kamut.com), dell’United States Department of
Agricolture (www.usda.gov), dell’Insitute Sciwentifique de Recherche
Agronomique , l’articolo di A. R. Piergiovanni, R. Simeone, A. Pasqualone,
“Composition of whole and refine meals of Kamut under southern Italian
conditions” su Chemical Engineering Transactions, 2009, vol. 17: 891-896.
Alcuni dati sonostati indicati da Oriana Porfiri (comunicazione personale).

Fonte originale: aam Terra Nuova, marzo 2010, n°248, pagg.73-76 / Autore:
Massimo Angelini / Fonte: solleviamoci.wordpress.com

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