
La Bhagavadgītā ha valore di testo sacro, ed è divenuto nella storia tra i testi più popolari e amati tra i fedeli dell'Induismo.
L'unicità di questo testo, rispetto ad altri, consiste anche nel fatto che qui non viene data un'astratta indicazione del Bhagavat[2], ma questa figura divina è un personaggio protagonista che parla in prima persona, e fornisce la possibilità di una sua darśana (dottrina) completa.
Attraverso i 18 capitoli della Bhagavad Gītā, Krishna - incarnazione di Dio ed identificabile con l'Ātman, ovvero il proprio Sé più profondo ed immortale - indica ad Arjuna le tecniche mistiche (Yoga) per liberarsi definitivamente dal ciclo delle nascite e delle morti (saṃsāra) ed ottenere la liberazione (mokṣa).
Dopo una lunga analisi sui concetti di anima, religione, dharma e su altri concetti che formano il fondamento della filosofia indiana, ad Arjuna viene inoltre spiegata l'importanza dell'azione senza attaccamento al risultato e viene descritto il bhakti yoga, l'unione con Dio attraverso l'amore e la devozione come unico mezzo per raggiungere la perfezione e la mokṣa:
« Soltanto col servizio devozionale è possibile conoscere 'Me', il Signore Supremo, che cosa e Chi sono 'Io'. E colui che diviene pienamente cosciente di 'Me' grazie a questa devozione, entra rapidamente in Dio. »
(Bhagavad Gītā, XVIII, 55)
La Bhagavad Gītā è considerata l'essenza di tutta la spiritualità vedica indiana, poiché essa racchiude il senso delle 108 Upaniṣad, le quali a loro volta costituiscono un condensato dei 4 Veda. In essa vengono fusi i due poli della ricerca soggettiva umana: monismo e dualismo.
Più che un astratto trattato di filosofia, la Gītā si può considerare un pratico manuale di vita, nel quale si affrontano tematiche spirituali di valenza universale; questo spiega la notevole diffusione del poema sacro anche in Occidente, in buona parte dovuta anche alla testimonianza di personaggi che basarono la propria vita sugli insegnamenti di questo Testo